Bisogna distinguere tra il termine EPATOTOSSICITA’, usato in senso generico ma che sta anche a indicare una reazione indesiderata prevedibile e dose dipendente e
DANNO EPATICO DA FARMACI, come termine generico
Un farmaco dovrebbe essere definito epatotossico solo se può dare origine a una reazione prevedibile e dose dipendente.
In questi casi, si può specificare aggiungendo un aggettivo, e dicendo epatotossicità intrinseca.
Per i farmaci che possono determinare, più o meno frequentemente, una reazione avversa epatica, non prevedibile e non dose dipendente, non si dovrebbe parlare di epatotossicità ma solo di danno epatico da farmaci. Oppure specificare sempre con l’aggettivo, cioè epatotossicità idiosincrasica.
Quest’ultima, non è detto che sia rara e può essere grave.
Teoricamente, anche il danno epatico su base idiosincrasia sarebbe prevedibile se si conoscesse a priori l’assetto genetico dell’individuo che assume quel farmaco, rispetto alla reazione tra la molecola del farmaco stesso e il suo organismo. Ma questo è per lo più ancora solo oggetto di studio. In pratica, si assume che non ci sia prevedibilità.
In genere, le caratteristiche dei due tipi principali di danno epatico da farmaci sono le seguenti:
EPATOTOSSICITA’ INTRINSECA
Prevedibile
Dose dipendente
Periodo di latenza in genere breve e definito
Alta incidenza tra gli utilizzatori
Riproducibilità sperimentale negli animali
EPATOTOSSICITA’ IDIOSINCRASICA
Non prevedibile
Non dose dipendente alle dosi terapeutiche
Periodo di latenza variabile
Bassa incidenza
Mancanza di riproducibilità negli animali da esperimento
A sua volta, l’EPATOTOSSICITA’ IDIOSINCRASICA, si sub-classifica in:
IMMUNOLOGICA
latenza breve (1-5 settimane)
segni di ipersensibilizzazione (rash, febbre, eosinofilia)
il riprodursi prontamente dopo riesposizione, con 1 o 2 dosi
METABOLICA
latenza lunga
assenza di segni di ipersensibilizzazione
manifestarsi tardivo dopo riesposizione
Esempio di epatotossicità intrinseca è quello del paracetamolo alle dosi superiori a quelle consigliate.
Esempi di epatotossicità idiosincrasica è quello di alcuni antibiotici. AF
UN TESTO FONDAMENTALE SULL’ARGOMENTO (dalla biblioteca medica personale)
Le malattie funzionali dell’apparato digerente, tra le quali intestino irritabile e dispepsia funzionale sono le maggiormente diffuse, sono notoriamente molto sensibili agli eventi stressanti.
Sono molto diffuse nella popolazione
Non modificano l’aspettativa di vita
Ne peggiorano però la qualità
Riducono la produttività
Causano costi notevoli per visite, esami clinici e terapie
DISTURBI FUNZIONALI ESOFAGEI
Dolore toracico esofageo funzionale
Bruciore retrosternale funzionale
Ipersensibilità al reflusso gastroesofageo
Globo (Globus)
Disfagia funzionale
DISTURBI FUNZIONALI GASTRODUODENALI
Dispepsia funzionale
Eruttazione
Nausea e vomito funzionali
Sindrome da ruminazione
DISTURBI INTESTINALI FUNZIONALI
Sindrome dell’intestino irritabile
Stipsi funzionale (stipsi cronica primitiva)
Diarrea funzionale
Gonfiore/distensione addominale funzionale
DOLORE GASTROINTESTINALE MEDIATO CENTRALMENTE
Sindrome del dolore addominale mediato centralmente
Sindrome intestinale da narcotici/iperalgesia intestinale indotta da oppiodi
DISTURBI FUNZIONALI DELLA COLECISTI E DELLO SFINTERE DI ODDI
Disturbo funzionale della colecisti
Disturbo funzionale dello sfintere di Oddi
Disfunzione dello sfintere pancreatico
DISTURBI FUNZIONALI ANORETTALI
Incontinenza fecale
Dolore anorettale funzionale
Disturbi di defecazione funzionali
È ormai assodato che le interazioni, bidirezionali, psiche-apparato digerente, hanno un ruolo fondamentale nella patogenesi di queste condizioni cliniche.
La pandemia di SARS-Cov-19, che causa COVID-19 è un evento di portata epocale e ha comportato enormi cambiamenti nella vita di tutti i giorni di miliardi di persone.
Tali radicali e prolungati cambiamenti, che hanno investito l’esistenza delle persone, sono indubbiamente da considerarsi eventi stressanti. Ad esempio, è stato dimostrato che il distanziamento sociale comporta aumento dell’ansia e della depressione. Si è anche evidenziato che i pazienti con malattie funzionali del digerente percepiscono gli eventi esistenziali della vita adulta come particolarmente negativi, con un impatto maggiore sulla malattia stessa, esitando in quadri più gravi.
Altri elementi che influiscono in modo negativo sono il telelavoro e la telescuola/teleuniversità.
Più di 1/5 dei pazienti con malattie funzionali digestive ha fatto rilevare un peggioramento dei sintomi dall’inizio della pandemia COVID-19.
Il peggioramento sembra colpire in modo particolare i pazienti che hanno intestino irritabile e dispepsia funzionale (la “sindrome da sovrapposizione”, con sintomi digestivi delle prime vie digestive e dell’intestino nello stesso individuo, presenti contemporaneamente o in momenti distinti), soggetti che sono più vulnerabili allo stress psicologico.
I fattori che influiscono in modo particolare sul peggioramento e sul miglioramento attengono alla comorbidità psicologica e ai problemi lavorativi o di studio.
I soggetti più giovani subiscono uno stress più intenso, in quanto più esposti all’enorme quantità di informazioni che provengono dai social media. Essi soffrono più facilmente di ansia, depressione o di altre alterazioni psicologiche nel corso della pandemia.
Per quanto le malattie funzionali dell’apparato digerente siano comorbidità, in caso che il paziente che ne soffre contragga Covid-19, in realtà esse lo sono solo formalmente, non avendo tale associazione particolare rilevanza clinica e prognostica.
È peraltro a nostro avviso ipotizzabile che alcune forme di Covid-19 che si presentano con una sintomatologia gastro-entero-colica prevalente, siano seguite da sintomi gastrointestinali funzionali particolarmente protratti, fino a forme, ad esempio, di intestino irritabile post-infettivo.
Le malattie funzionali dell’apparato digerente non pongono alcun problema dal punto di vista della vaccinazione anti-Covid-19 che è indicata per loro come per tutta la popolazione.
Bibliografia
Rome IV. Functional Gastrointestinal Disorders: Disorders of Gut-Brain Interaction. Gastroenterology 2016;150 (special issue).
Parker CH, Naliboff BD, Shih W et al. Negative events during adulthood are associated with symptom severity and altered stress response in patients with irritable bowel syndrome. Clin. Gastroenterol. Hepatol. 2019; 17: 2245–52.
Tadayuki O, Kewin THS, Takanori Y et al.. Impacts of the COVID‐19 pandemic on functional dyspepsia and irritable bowel syndrome: A population‐based survey. Journal of Gastroenterology and Hepatology Nov. 2020.
Williams SN, Armitage CJ, Tampe T, et al. Public perceptions and experiences of social distancing and social isolation during the COVID‐19 pandemic: a UK‐based focus group study. BMJ Open 2020.
Le malattie infiammatorie intestinali rappresentano un problema a parte nell’ambito della pandemia COVID-19. L’obiettivo principale è quello di mantenere la malattia intestinale sotto controllo, incoraggiando l’aderenza alle terapie per evitare recidive. Questi pazienti non appaiono più suscettibili al SARS-CoV-2 rispetto a chi non ne è affetto e per loro non c’è evidenza di una associazione con un rischio aumentato di Covid-19. La malattia infiammatoria intestinale, specie se in remissione o ben controllata dalle terapie, di per sé non è nemmeno tra i fattori di rischio per lo sviluppo di una forma grave di COVID-19.
Il problema può nascere dalle terapie farmacologiche che questi pazienti devono assumere.
Sulfasalazina e mesalazina (5-ASA). Non rappresentano alcun problema perché non aumentano il rischio di infezioni. Quindi possono essere continuate, anche in caso di contatto con soggetto COVID-19 positivo e pure se il paziente contrae egli stesso COVID-19.
Glucocorticoidi (corticosteroidi). Questa categoria di farmaci si associa con un rischio aumentato di infezioni. I farmaci di questa categoria più usati nelle malattie infiammatorie intestinali sono il prednisone e il metilprednisolone. Il rischio è soprattutto per dosi di prednisone ≥ 20 mg al giorno (o dose equivalente di un altro glucocorticoide – consultare le apposite tabelle di equivalenza). Non è del tutto chiarito se il trattamento con questi farmaci sia associato a un rischio aumentato di COVID-19 e di complicanze. Si tenga presente che gli stessi glucocorticoidi trovano una loro specifica collocazione nel trattamento del Covid-19, in determinati casi, con insufficienza respiratoria. In corso di pandemia (e presumibilmente anche in una fase successiva di endemia COVID-19) nei pazienti con malattia infiammatoria intestinale, ove possibile, i glucocorticoidi dovrebbero essere evitati e, se già in corso, si deve pensare (sotto la guida del medico, meglio se gastroenterologo esperto di queste malattie) a una loro rapida diminuzione di dosaggio, almeno al di sotto i 20 mg di prednisone-equivalente. Al di sotto di questo dosaggio, la riduzione può avvenire in modo più graduale. Bisogna infatti soppesare la riduzione di dosaggio con il rischio di recidiva. Un’altra opzione da tenere presente è di passare ai glucocorticoidi con azione localizzata all’intestino, come la budesonide e il beclometasone, con minore assorbimento e minori effetti sistemici, i quali hanno dimostrato minori effetti collaterali e minori aventi avversi. Se si verifica una recidiva, privilegiare appunto budesonide o beclometasone, quando possibile. Inoltre, nella malattia di Crohn in recidiva, bisogna prendere in considerazione un periodo di nutrizione enterale totale con prodotti ad hoc come misura di induzione della remissione dell’acuzie di malattia. Nel paziente con malattia infiammatoria intestinale che sia stato in contatto con un individuo COVID-19 positivo o che si ammali egli stesso di COVID-19, bisogna o ridurne il dosaggio, almeno al di sotto dei 20 mg di prednisone-equivalente al giorno, o sostituire il prednisone o il metilprednisolone con budesonide o beclometasone, quando possibile. In casi molto gravi di pazienti settici o con shock (ma qui parliamo di pazienti che richiedono il ricovero ospedaliero urgente) può essere viceversa necessaria una dose anche elevata di glucocorticoidi per un breve periodo.
In generale, ma in particolare in un periodo difficile di pandemia virale, bisogna che i pazienti non inizino né modifichino o sospendano una terapia con glucocorticoidi di propria iniziativa, senza consultare il medico di famiglia o il gastroenterologo.
Immunomodulatori (immunosoppressori). Il più largamente usato nelle malattie infiammatorie intestinali è la azatioprina che appartiene alla classe delle tiopurine. È noto che questi farmaci aumentano di cinque volte il rischio di lesioni erpetiche e peggiorano le verruche virali. Tuttavia non c’è una chiara evidenza che con gli immunomodulatori aumenti il rischio di infezioni delle vie aeree inferiori. Il medico, lo specialista, devono fare un bilancio rischi-benefici ma la maggior parte dei pazienti può continuare ad assumerli alle stesse dosi. Se possibile, evitare di iniziarli in pandemia COVID e evitare di aumentarne le dosi. Nei pazienti più anziani (notoriamente più a rischio di forme gravi di COVID-19), in quelli in remissione stabile e con co-morbidità, prendere in considerazione la loro sospensione.
Se un paziente è stato in contatto con un caso di COVID-19 bisogna considerare una sospensione dell’immunomodulatore per 2 settimane. Se un paziente con malattia infiammatoria intestinale diventa positivo o si ammala di COVID-19, occorre considerare di sospendere l’immunomodulatore fino a che non si negativizza.
Farmaci biologici (i più usati sono gli anti-TNF). Alcuni sono somministrati per infusione endovenosa (floboclisi), necessariamente in ospedale (infliximab) ed altri per via sottocutanea (es. adalimumab). Anche nel contesto epidemico COVID-19, appaiono farmaci relativamente sicuri (in mani esperte). Se in questo particolare momento si deve iniziare la terapia con un farmaco biologico in un nuovo paziente, è corretto privilegiarne uno per via di somministrazione sottocutanea, sia per ridurre il carico di lavoro del centro ospedaliero, sia per ridurre i contatti tra pazienti e ospedale. Però se il paziente sta facendo l’anti-TNF per via endovenosa il cambiamento con un altro anti-TNF per via sottocutanea non è consigliabile perché potrebbe esporre a un rischio di recidiva.
Gli anti-TNF nelle malattie infiammatorie intestinali possono essere usati in monoterapia o in combinazione con immunomodulatori o glucocorticoidi. Il rischio di gravi infezioni, tra cui quelle polmonari, aumenta con i protocolli di associazione, significativamente quando si tratta di glucocorticoidi associati. Questo è un dato generale e deve essere tenuto presente anche a proposito di COVID-19.
Nei casi di terapia con anti-TNF in combinazione e di paziente in remissione e/o anziano, bisogna prendere in considerazione di sospendere o cessare l’immunomodulatore per ridurre il rischio di infezione. Ove possibile, usare il monitoraggio del farmaco nel sangue. Se il paziente è stato in contatto con un soggetto COVID-19 positivo, bisogna considerare la sospensione della terapia con anti-TNF per 2 settimane. Se il paziente risulta positivo e/o sviluppa la malattia COVID-19, bisogna considerare di sospendere il farmaco biologico fino a che egli non avrà superato l’infezione.
Considerazioni simili a quelle fatte per i farmaci biologici anti-TNF si possono estendere ai biologici-non-anti-TNF e agli inibitori JAK, tenendo conto che si tratta di farmaci che possono essere utilizzati solo in centri ad alta specializzazione.
RACCOMANDAZIONI NON FARMACOLOGICHE
Ottimizzare lo stato di salute del paziente con malattia infiammatoria intestinale e trattare la malnutrizione.
Convincere a smettere di fumare quelli che ancora fumano.
Incoraggiare l’immunizzazione tramite i vaccini per prevenire le coinfezioni con altri virus e batteri (anti-pneumococcica PCV13 e PPSV23), anti-influenzale stagionale).
La vaccinazione anti-COVID-19 è fortemente indicata e i malati con malattia infiammatoria intestinale sono una categoria prioritaria.
Mettere in atto scrupolosamente tutte le misure di prevenzione del contagio COVID-19 ben note (distanziamento sociale, mascherine – meglio se FFP2 – lavaggio delle mani).
Privilegiare ove possibile il telelavoro.
Ridurre il più possibile il ricorso a mezzi pubblici.
Evitare o, man mano che la situazione epidemiologica migliorerà, ridurre i viaggi non essenziali.
Evitare il più possibile la frequentazione di ambienti sanitari.
Privilegiare la telemedicina.
Limitare gli esami clinici non urgenti.
Rimandare gli esami endoscopici non urgenti e gli interventi chirurgici di elezione.
Fare i test COVID-19 prima di accessi in ospedale.
Per ridurre gli accessi dei pazienti in farmacia, i medici devono fare le prescrizioni dei medicinali per periodi più lunghi del solito, si consiglia per 3 mesi, o il paziente deve farsi recapitare i farmaci a casa.
I centri specialistici che eseguono le infusioni periodiche dei farmaci biologici devono adottare speciali precauzioni, riorganizzandosi, per ridurre al minimo il rischio di contagio.
Man mano che la copertura vaccinale di popolazione o di massa contro il COVID-19 si estenderà e darà i suoi frutti, alcune di queste precauzioni potranno essere allentate, tenendo però presente il rischio rappresentato dalle varianti del SARS-Cov-2.
La terapia del COVID-19 in un paziente con malattia infiammatoria intestinale non si differenzia sostanzialmente da quella che si deve attuare negli altri pazienti.
È fondamentale tuttavia tenere conto delle possibili interazioni farmacologiche tra i farmaci impiegati per la malattia infiammatoria intestinale e quelli per COVID-19.
Gli insegnamenti che sono scaturiti dalla gestione delle malattie infiammatorie intestinali durante la presente pandemia di COVID-19 potranno almeno in parte essere utili anche dopo che l’emergenza sarà superata.
Bibliografia
Alimentary Pharmacology and Therapeutics. 2020 Jul.;52:54-72.
Journal of Gastroenterology and Hepatology. 2020 Nov.;16;10.
Come è ormai ben noto, il recettore cellulare suscettibile che permette l’ingresso nelle cellule umane del virus SARS-Cov-2 è l’ACE2 (recettore dell’enzima di conversione dell’angiotensina). Oltre che nelle cellule degli alveoli polmonari (dove è espresso in più dell’80% di esse), ACE2 è presente nelle cellule dell’endotelio vascolare delle piccole e grandi arterie e delle vene; ed ancora, a vari livelli, nelle cellule di tutto l’apparato gastroenterico. ACE2 è presente nella membrana basale dell’epitelio squamoso del naso e della mucosa nasofaringea. ACE2 è presente nella muscolatura liscia dello stomaco e nella mucosa del colon e, abbondantemente, anche negli enterociti del duodeno, digiuno e ileo.
Nel fegato, ACE2 è ampiamente espresso a livello dello strato endoteliale dei piccoli vasi ma non dei sinusoidi. Inoltre è significativamente presente nei colangiociti e poco invece negli epatociti.
Questa premessa è importante per capire perché SARS-CoV-2 può colpire, oltre all’apparato respiratorio e al sistema vascolare, anche l’apparato digerente e il fegato. Inoltre da essa è facile capire perché, oltre alla ben nota, e principale, via di trasmissione di questo virus, cioè quella aerea (dalle vie respiratoria del soggetto infetto a quelle del soggetto suscettibile) sia possibile anche quella fecale, feco-orale.
Un aumento degli enzimi epatici (AST, ALT, GGT) si verifica nel 5-50% dei pazienti con COVID-19 (a seconda delle casistiche). Le caratteristiche del danno epatico sono, dal punto di vista clinico, piuttosto di tipo epatocellulare che colestatico con, a livello istologico, degenerazione epatocitaria, necrosi focale, colestasi a livello dei capillari biliari e infiammazione negli spazi portali, ma, cosa rimarchevole, il virus SARS-CoV-2 non viene rilevato nei campioni prelevati dal fegato.
Altri aspetti istologici riscontrati nel fegato di malati di COVID-19 vanno da una moderata steatosi microvescicolare a moderati infiltrati infiammatori linfocitari dei lobuli epatici e, come già detto, degli spazi portali. Altri aspetti microscopici riscontrati: dilatazione sinusoidale, rigonfiamento degli epatociti (ballooning) e loro apoptosi.
Frequentemente la gravità del danno epatico è stata correlata con la gravità della malattia COVID-19 e viceversa.
In altri termini, pazienti con COVID-19 grave hanno più alti tassi di danno epatico (un po’ più del doppio), se paragonati a quelli con COVID-19 non grave.
La presenza di una sottostante malattia di fegato cronica (precedente, nota o anche ignorata) può rendere il paziente con COVID-19 ad alto rischio di grave danno epatico, come lo “scompenso epatico acuto-su-cronico”, con dati indicanti che l’epatopatia steatosica non alcolica/metabolica può essere un fattore di rischio indipendente per una forma grave di COVID-19.
La condizione di essere portatore di una malattia di fegato è un fattore di rischio indipendente per una aumentata mortalità da COVID-19 (rischio di quasi il doppio).
La progressione verso una forma grave di COVID-19 è più probabile nei pazienti portatori di steatosi epatica dismetabolica.
Malattie di fegato moderate o gravi si sono rivelate comorbidità clinicamente rilevanti del Covid-19, rispetto al rischio di ricovero in terapia intensiva e di mortalità (accanto a diabete mellito, cardiopatie, ipertensione arteriosa, malattie respiratorie croniche, neoplasie, immunodeficit, obesità).
In un vasto studio condotto in USA si è evidenziato che pazienti con una malattia cronica di fegato, specie se di diagnosi recente, avevano un rischio significativamente aumentato di contrarre COVID-19, rispetto ai pazienti senza malattia cronica di fegato. Inoltre, lo stesso studio ha dimostrato che i pazienti con malattia cronica di fegato che contraevano COVID-19 avevano più alti tassi di ospedalizzazione e di decesso, sia rispetto ai pazienti COVID-19 senza malattia di fegato (circa del doppio), sia rispetto ai pazienti con malattia di fegato senza COVID-19.
Peraltro, l’epatite B, in atto o pregressa, sembra non aumentare il rischio di decesso in pazienti che contraggono COVID-19 e il danno epatico non appare risentire particolarmente della coinfezione (salvo negli stadi più avanzati dell’epatite B cronica).
Il virus è stato trovato nei campioni di feci di circa il 50% dei pazienti con covid-19, con circa il 18% di essi che lamentavano dolori addominali e diarrea. È stato dimostrato che SARS-CoV-2 è capace di replicarsi attivamente negli enterociti ACE-positivi. A causa dell’abbondanza del virus nel piccolo intestino, ci si deve aspettare una forte esposizione delle cellule del fegato al virus stesso (e ai danni da esso provocati), attraverso il sistema reticolare epatico.
Il deficit dello stato immunitario del fegato, conseguenza di molte epatopatie, può giocare un ruolo critico nell’infezione COVID-19.
Infatti, è stato dimostrato che in pazienti con steatosi epatica dismetabolica lo stato di polarizzazione dei macrofagi può essere legato a stimoli metabolici come quelli derivanti dagli acidi grassi, con ripercussioni sulla risposta infiammatoria dell’ospite ai segnali generati dall’asse intestino-fegato. Nel COVID-19 la “tempesta citochinica” ha una somiglianza con quella osservata nella SARS (Sindrome Respiratoria Acuta Grave, del 2002-2003).
Tuttavia, SARS-CoV-2 può anche avere un effetto citotossico diretto, dato che, come abbiamo visto, il suo recettore di ingresso nella cellula ACE-2 è espresso nei colangiociti del fegato. Inoltre, l’impiego di antibiotici e antivirali, come anche infezioni batteriche secondarie, possono portare a un danno epatico in pazienti con COVID-19. Peraltro, il tocilizumab (nome commerciale RoActemra, per infusione endovenosa, anticorpo monoclonale immunosoppressore anti-interleuchina-6 usato in casi gravi di artrite reumatoide) è stato valutato per pazienti con COVID-19 e danno polmonare grave accompagnato da elevati livelli ematici di interleuchina-6. È raccomandata una profilassi con analoghi nucleosidici* o nucleotidici** contro l’epatite B nei pazienti HBsAg positivi con COVID-19 per i quali si debba intraprendere una terapia immunosoppressiva (Entecavir* e Tenofovir** sono i più impiegati, ma anche Lamivudina*, più economica e reperibile anche in farmacie extraospedaliere, può essere utilizzata, dato il previsto breve periodo di trattamento che rende improbabile la comparsa di resistenze, noto inconveniente della Lamivudina). Tale profilassi sarebbe a nostro avviso da prendere in considerazione anche per i pazienti con COVID-19 HBsAg positivi che debbano essere sottoposti a terapia corticosteroidea, visti i dosaggi medio-alti impiegati di solito in questo contesto, anche se in genere per brevi periodi (6 mg di desametasone per 10 giorni o dose equivalente di prednisone o di metilprednisolone). Ovviamente, il presupposto all’attuazione di quanto sopra è la conoscenza dello stato virus B del paziente (anamnesi e esecuzione almeno di HBsAg, meglio anche anti-HBc e anti-HBs – il paziente potrebbe essere protetto dalla vaccinazione anti-HBV).
Un danno epatico che ha portato a sospensione del farmaco è stato rilevato con l’antivirale Remdesivir, peraltro costosissimo e che si è rivelato di limitata efficacia contro COVID-19. Remdesivir non è raccomandato nei pazienti con ALT maggiore di 5 volte il valore normale o con scompenso epatico.
Infine, l’ipossia e lo shock indotti dalle complicazioni dovute a COVID-19 possono causare ischemia epatica (epatite ischemica).
MANIFESTAZIONI GASTRO-INTESTINALI
Circa il 10% dei pazienti con COVID-19 soffre di sintomi gastrointestinali: nausea o vomito, diarrea e anoressia, con una incidenza simile tra adulti e bambini. I pazienti con sintomi gastrointestinali possono richiedere una ospedalizzazione più lunga. L’anoressia prolungata è una indicazione all’ospedalizzazione. In alcuni pazienti i sintomi gastrointestinali isolati (e non respiratori) possono caratterizzare l’esordio della malattia, ed a volte precedere quelli respiratori. Vi sono casi più rari in cui i sintomi gastrointestinali non sono accompagnati da sintomi a carico dell’apparato respiratorio (prime vie aeree o basse vie respiratorie) e in alcuni nemmeno da febbre. Il meccanismo fisiopatologico sottostante può essere correlato all’abbondante espressione di ACE2 mRNA e di recettori proteici negli enterociti. Alterazioni istologiche, compresa una infiltrazione di plasmacellule e di linfociti nella lamina propria degli enterociti suggerisce una risposta immuno-mediata. La capacità di SARS-CoV-2 di infettare gli enterociti è stata inoltre dimostrata in organoidi intestinali umani.
Gli inibitori di pompa protonica (prazoli) facilitano l’infezione COVID-19 e potrebbero aggravarla. Non così sembra per gli antagonisti dei recettori istaminici-2 (ranitidina, famotidina).
Uno dei maggiori motivi di preoccupazione relativi all’infezione enterica da parte di SARS-CoV-2 riguarda la possibilità che materiale di origine fecale possa portare a contaminazione di fomiti § e a trasmissione del virus per questa via, specialmente quando si generano aerosol infetti dal lavaggio del water.
§ Fomite è un oggetto inanimato che, se contaminato o esposto a microrganismi patogeni (come batteri, virus o funghi), può trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Esempi di fomiti possono essere vestiti sporchi, asciugamani, lenzuola, fazzoletti, medicazioni chirurgiche e gli aghi contaminati (da Wikipedia).
Ed infatti, un cluster di COVID-19 potenzialmente legato a trasmissione fecale (analogo a quello che si verificò in un grosso agglomerato residenziale ad Hong Kong nel 2003, causato dal virus della SARS e dovuto a una massiccia diffusione per via aerea-aerosolica a partenza da perdite-guasti o aperture di sfiato dei tubi di scarico delle acque reflue dai bagni – il famoso caso di “Amoy Gardens, Kowloon Bay”) è stato descritto sempre ad Hong Kong.
Amoy Plaza, Amoy Gardens, Hong Kong
In base alle risultanze di studi di stabilità di superficie su plastica e materiali diversi, il SARS-CoV-2 può rimanere vitale per più di 72 ore su alcuni fomiti. In uno studio, campioni fecali rimanevano positivi per SARS-CoV-2 nel 20% di pazienti nonostante fosse ormai eliminato dalle vie respiratorie, anche dopo svariati giorni. Tutto ciò porta ad affermare che la determinazione della presenza di SARS-CoV-2 nelle feci è di grande importanza per il controllo epidemiologico di COVID-19. Alcuni esperti hanno consigliato l’esecuzione di un tampone rettale, oltre a quello naso-faringeo, per la diagnosi di infezione SARS-CoV-2.
L’interazione tra COVID-19 e le malattie dell’apparato digerente, in particolare le malattie infiammatorie intestinali, richiede una trattazione a parte.
I pazienti affetti da una malattia di fegato o dell’apparato digerente non devono modificare le terapie che stanno assumendo, a causa della pandemia COVID-19 o se contraggono l’infezione stessa, salvo in casi molto particolari e dopo aver sentito il medico di famiglia o lo specialista epatologo o gastroenterologo.
Una malattia di fegato o dell’apparato digerente non solo non controindica la vaccinazione anti-COVID-19 ma anzi la fa consigliare a maggior ragione. Alcuni di questi malati potrebbero rientrare nella categoria dei soggetti fragili (ad esempio quelli con cirrosi epatica) e quindi dovrebbero ottenere priorità nell’erogazione del vaccino.
Bibliografia
Signal Transduction and Targeted Therapy 02-11-2020
Il carcinoma epatocellulare è il tumore primitivo del fegato più frequente
Se la diagnosi viene fatta in stadio iniziale, la sopravvivenza a 5 anni >70%
Diagnosi in stadio avanzato, sopravvivenza a 5 anni: 5%
Qui si fa riferimento all’accuratezza di un esame di screening non in generale, bensì rispetto alla diagnosi precoce di carcinoma epatocellulare (stadio iniziale).
Soggetti a rischio:
Pazienti con cirrosi epatica
Pazienti con epatite cronica da virus B, anche se non con cirrosi
Frequenza degli esami clinici per lo screening nei soggetti a rischio: ogni 6 mesi
Ecografia
L’ecografia del fegato ha una sensibilità del 45%
La sua efficacia può essere inadeguata per vari motivi:
Può generare TC e/o RMN con contrasto inutili (radiazioni ionizzanti, altri rischi e inconvenienti; controindicazioni a tali esami)biopsia epatica (invasiva)stress per il paziente
costi aggiuntivi
Visualizzazione subottimale del fegato (es. obeso, sede del carcinoma) (nel 20% dei casi)
Livelli di preparazione dell’operatore ecografista non uniformi (l’ecografia è un esame tipicamente operatore-dipendente)
Utilizzo di ecografi con performance più o meno elevate
Aderenza ad eseguire regolarmente l’ecografia ogni 6 mesi da parte del paziente o per vari tipi di ostacolo (es. liste di attesa). ~ ¼ dei soggetti a rischio risultano aderire regolarmante allo schema semestrale.
Marcatori nel sangue (marcatori biologici)
Alfafetoproteina (AFP)
Valore soglia generalmente utilizzato: 20 ng/ml
Sensibilità: 39-64%
Specificità: 76-97%
Misure ripetute: aumenta la sensibilità (ad es. ripetizione dopo 1-3 mesi in certi casi)
Alfafetoproteina associata a ecografia epatica: aumenta la sensibilità della sola ecografia dal 45 al 64%.
Nota.
Quindi, non è vero, come hanno sostenuto molti epatologi negli anni scorsi, ed alcuni ancor oggi (sulla base di studi evidentemente carenti sul piano metodologico e i cui risultati sono in contrasto con quelli di moltissime altre ricerche, precedenti e successive), che la determinazione dell’alfafetoproteina debba essere abbandonata in favore della sola ecografia.
Ciò corrisponde anche con la nostra personale esperienza, sempre confermata nel tempo.
Desgammacarbossiprotrombina (DCP)
Sensibilità e specificità molto variabili da studio a studio:
dipende molto dal valore soglia che si stabilisce.
Ad esempio, con un valore soglia di 40 mAU/mL la sensibilità è risultata del 74% e la specificità del 86%.
Un altro studio ha rilevato una sensibilità molto bassa, del 26,3%.
(NB: parliamo sempre di epatocarcinoma in fase precoce)
In uno studio si è ottenuta AUROC: 0,72 (cioè un valore abbastanza buono)
(AUROC, semplificando al massimo, misura l’accuratezza di un test diagnostico, essendo una descrizione grafica sintetica di sensibilità e specificità, tenendo conto dei diversi valori soglia)
Studi contrastanti:
Secondo alcuni esperti AFP e DCP sono i biomarcatori (disponibili, il primo largamente, il secondo purtroppo un po’ meno) con la migliore performance clinica
Secondo altri DCP non aumenta la potenza discriminante (diagnostica) rispetto ad altri metodi basati su biomarcatori o loro associazione.
Nella nostra esperienza DCP iuta a individuare pazienti che erano negativi alla AFP, dunque l’associazione di AFP con DCP può essere vantaggiosa.
Algoritmi vari, che associano diversi test
GALAD score: associa sesso, età, AFP-L3, AFP, DCP (sesso maschile e età, quanto più avanzata, aumentano il rischio)
Algoritmo HES: associa AFP, variazione della AFP, alanina-aminotransferasi, conta piastrinica
Altri biomarcatori (che però non sono disponibili su larga scala o sono sperimentali):
Alfafetoproteina L3 (AFP-L3)
Metodi di biopsia liquida
DNA methylation/cell-free DNA
EVs
Bibliografia
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CAMBIAMENTO DI APPROCCIO MEDICO-PAZIENTE: spesso il medico usa a parole o scrive espressioni che fanno parte di una lunga tradizione medica ma che dovrebbero poco per volta essere superate perché non aiutano nel costruire un ottimale rapporto tra i due soggetti, il medico appunto e il paziente ; alcuni esempi (da un articolo della prestigiosa rivista scientifica The Lancet).
DA SUPERARE ESPRESSIONI MIGLIORI
Il paziente nega… Non ha, non ha avuto… la seguente malattia
Malattia, sintomo non ben controllato Non ben compensato
Fallimento terapeutico, di una terapia Trattamento, terapia inefficace,
poco efficace, che non ha raggiunto
l’obiettivo, ecc.
Tossicodipendente, abusa di, alcoldipendente Disturbo da uso di sostanze, alcol
Paziente non compliante
Non aderisce, o meglio capire perché non assume tutte le medicineregolarmente (età, polifarmacoterapia,problemi al lavoro)
L’idea di poter trarre informazioni sulla salute di una persona dai suoi liquidi organici è antichissima nella storia della medicina occidentale.
Con la nascita e lo sviluppo della moderna medicina scientifica i progressi in questo campo sono stati impressionanti.
Si pensi solo al concetto di “biopsia liquida”, esame del sangue con il quale, in determinati casi, si può fare una diagnosi di tumore quasi altrettanto accurata rispetto a una biopsia tradizionale che comporta la puntura traumatica di un organo.
Con un semplice prelievo di sangue da una vena o addirittura da una goccia di sangue ottenuta pungendo un dito, si possono ricavare una enorme quantità di elementi sullo stato di salute della persona e spesso orientare o concludere una diagnosi precisa, presupposto indispensabile per la successiva terapia e auspicata guarigione.
Detto questo, bisogna anche aggiungere che la prescrizione di un esame di laboratorio del sangue (o delle urine, delle feci o di altro liquido organico) dovrebbe sempre essere un atto medico.
Infatti, sia la corretta tempistica di esecuzione, la scelta degli esami, la loro interpretazione, richiedono una preparazione che solo il medico possiede. Egli ha studiato e si aggiorna continuamente su trattati di medicina e articoli scientifici.
In generale, la autoprescrizione di esami del sangue non deve essere incoraggiata.
Internet fornisce una quantità di informazioni smisurata sulla salute e sulle malattie e la loro discernita è compito arduo anche per il medico aggiornato.
Si tenga conto che oggi gli esami clinici eseguiti sul sangue e disponibili nella maggior parte dei laboratori sono un numero immenso.
Eseguire esami del sangue inutili, non mirati o inappropriati comporta diverse conseguenze negative.
Ne cito solo alcune: spreco di risorse personali e pubbliche; risultati che a catena innescano altri esami, anche invasivi (con i relativi rischi) e inutili, nonché visite specialistiche evitabili; ansia ingiustificata, perdita di giornate di lavoro e di tempo libero.
Gli esami del sangue fatti a scopo preventivo, o meglio sarebbe a dire, di diagnosi precoce, non devono essere richiesti ed eseguiti senza criteri precisi, che oggi si tende a codificare sempre più dettagliatamente, con linee guida approvate dalle varie società scientifiche.
Un esempio è rappresentato dai marcatori tumorali, solo alcuni dei quali ha senso eseguire a scopo di diagnosi precoce, e anche per quei pochi la questione è molto dibattuta e controversa all’interno della comunità scientifica. Il loro maggior impiego riconosciuto è il seguire nel tempo l’andamento della terapia anti-tumorale (dunque a diagnosi già avvenuta) e confermare l’avvenuta guarigione.
Le linee guida suggeriscono a che età iniziare gli screening per le diverse malattie, in base al sesso, all’anamnesi familiare, alle caratteristiche cliniche del soggetto, il tipo di esame da eseguire. Indi i tempi per i successivi controlli.
Casi particolari sono gli esami di laboratorio che vengono richiesti dalle assicurazioni e dalla medicina del lavoro, che seguono criteri specifici dei rispettivi settori (esempio presenza nel sangue di sostanze tossiche nel caso di certe lavorazioni a rischio).
Nel caso invece in cui compaiono dei sintomi di sospetta malattia, sarà il medico a decidere se eseguire esami del sangue e quali, in questo caso mirati al quesito clinico, che, lo ricordiamo, è sempre indispensabile indicare nella richiesta. Diversamente, il laboratorio non può in genere accettarla.
Gli esami del sangue sono distinti in esami di primo livello (in parte identificabili con il termine di esami di routine) e esami di secondo e terzo livello. Alcuni degli esami di secondo, e a maggior ragione di terzo livello, possono essere richiesti o consigliati dallo specialista di una determinata branca.
Per quanto riguarda l’aspetto pratico dell’esame del sangue, molti laboratori non richiedono alcuna prenotazione. Basta presentarsi al mattino da e fino a una certa ora con la richiesta del medico che specifichi gli esami da fare e, come ricordato più sopra, il quesito diagnostico, oltre alle generalità del paziente.
Non tutti gli esami richiedono il digiuno (dalla sera prima, non cenando troppo tardi), comunque, nel dubbio, rimandare la colazione dopo il prelievo non sarà un grosso problema.
Se ci sono dubbi, meglio fare una telefonata prima al laboratorio e chiedere. Molti laboratori pubblicano sul loro sito internet informazioni dettagliate su ciascun esame, se è necessario il digiuno o no, ecc.
È possibile che il risultato di un esame di laboratorio sia sbagliato?
ANALIZZATORE EMATOLOGICO AUTOMATICO
La risposta è che è molto difficile che ci sia un vero e proprio errore, ad esempio uno scambio di provette o altri errori grossolani ed errori umani. La stragrande maggioranza degli esami del sangue è eseguita da macchine, sempre più sofisticate e precise. Le procedure, dal momento del prelievo fino alla trascrizione finale del referto sono accuratamente standardizzate in tutti i laboratori italiani (del SSN o accreditati) e del mondo occidentale a tecnologia avanzata. I controlli di qualità sono sistematici, accuratissimi e prevedono vari livelli.
Variazioni possono accadere per alcuni esami in relazione alla modalità del prelievo, all’osservato digiuno e a qualche altro tipo di interferenza, ma non sono in genere rilevanti. Almeno per gli esami di base routinari. Per alcuni esami più delicati, come alcuni test immunologici, ci possono essere differenze da laboratorio a laboratorio e, talvolta, può essere utile la ripetizione in un laboratorio diverso.
Solo alcuni esami ematici, delle urine e delle feci sono ancora necessariamente eseguiti dal medico o dal biologo al microscopio.
Nessun esame di laboratorio ha un’accuratezza del 100%.
Tutti gli esami, anche i migliori, hanno una certa percentuale di falsi positivi e di falsi negativi. Falso positivo e falso negativo non sono affatto errori! Sono concetti statistici e, tra l’altro, il loro significato cambia a seconda della frequenza di una data malattia nella popolazione cui il soggetto appartiene.
Attenzione a confrontare i risultati guadando i valori di riferimento normali, quasi sempre posti accanto al risultato! I valori di riferimento possono cambiare, a volte di molto, da un laboratorio all’altro e anche lo stesso laboratorio, nel tempo, li può modificare. Attenzione anche alle unità di misura e ai decimali! Anche questi cambiano spesso da un laboratorio a un altro.
Un aspetto importante. Gli esami di laboratorio “fotografano” la situazione in un determinato momento. In medicina è fondamentale osservare l’evoluzione nel tempo di determinati parametri biologici. Questo è il motivo per cui è sempre bene conservare il risultato di esami del sangue precedenti, anche vecchi di anni!
Il confronto dei risultati col passare del tempo è spesso irrinunciabile.
Gli asterischi posti accanto ai valori “alterati”.
Deve essere ben chiaro che il programma informatico del laboratorio o della macchina che esegue l’esame, in base all’intervallo di normalità predefinito, produce automaticamente la segnalazione di “fuori range”. Un risultato “asteriscato” non significa necessariamente malattia e, ancora una volta, deve essere interpretato dal medico (e mai dal dr. Google!).
Un esame del sangue alterato può orientare verso una malattia ma in certi casi può anche non significare affatto che una persona è malata.
Questo è il motivo per cui il risultato degli esami del sangue deve essere sempre valutato da chi ha la competenza specifica per farlo e non deve essere disgiunto da una valutazione globale della persona.
Terminologia: condrocalcinosi, pseudogotta, o malattia da deposito di calcio pirofosfato; in lingua inglese: calcium pyrophosphate deposition disease (CPPD, e questo è l’acronimo internazionale che anche qui di seguito verrà adottato)
La CPPD è un’artropatia metabolica causata dalla deposizione di calcio pirofosfato dentro e attorno alle articolazioni, specialmente nelle cartilagini e fibrocartilagini.
Essa appartiene alla categoria delle “malattie da deposito di cristalli”, tra le quali la gotta, da deposito di cristalli di urato, è la più nota. Per questo motivo la CPPD è denominata anche “pseudogotta”. A tale categoria appartengono inoltre l’ ”artropatia da cristalli di fosfato di calcio” e quella da “ossalato di calcio”. L’aspetto radiologico della cartilagine calcificata viene definito “condrocalcinosi”, termine molto spesso utilizzato come terzo sinonimo di CPPD.
Eziopatogenesi
Essa è solo in parte conosciuta. Un’iperattività dell’enzima ATP-pirofosfoidrolasi è stata dimostrata nelle cartilagini dei pazienti, con conseguente aumento locale del pirofosfato inorganico, il quale a sua volta si lega al calcio, esitando nella deposizione patologica di pirofosfato di calcio (cristalli). La deposizione di pirofosfato di calcio determina infiammazione, acuta (e/o cronica) e danno tissutale articolare, principalmente cartilagineo (e sinoviale). L’infiammazione inizia con l’attivazione del componente NLRP3 (detto anche criopirina) dell’inflammasoma. Ne risulta produzione di interleukina (IL)-1beta e IL 18 e si determina il fenomeno del “neutrophil extracellular traps”. Vi è una certa evidenza che permette di estendere il concetto di malattia (o sindrome) autoinfiammatoria alle artropatie cristalline (gotta e CPPD), andando esse ad aggiungersi al già lungo elenco di questa categoria patologica [1].
Una predisposizione genetica alla CPPD è probabile ed è stata studiata. Ci sono delle forme in cui la familiarità è spiccata (autosomica dominante).
Epidemiologia
Si stima che la CPPD colpisca dal 4 al 7% della popolazione adulta negli Stati Uniti e in Europa, con le più alte prevalenze dopo i 50 anni di età e con aumento progressivo nelle successive decadi di vita (specie dopo i 60). Sulla prevalenza in base al sesso, le casistiche sono contrastanti e comunque le differenze sono modeste. Per confronto, la gotta ha una prevalenza del 3-6% nei maschi e dell’1-2% nelle femmine. Quindi la CPPD (sintomatica) e la gotta dovrebbero avere una prevalenza dello stesso ordine di grandezza.
Forme cliniche
Malattia da deposito di pirofosfato di calcio acuta (pseudogotta acuta)
Comprende il 25% dei casi di CPPD. Questa forma ha inizio acuto, con un’artrite mono o oligoarticolare. L’articolazione colpita è calda, con pelle arrossata, edematosa nell’articolazione stessa e attorno ad essa. L’aspetto è indistinguibile da quello dell’artrite gottosa acuta e da quello dell’artrite settica. L’articolazione più colpita è il ginocchio, seguito dal polso. La podagra acuta della prima articolazione metatarso-falangea (tipica della gotta acuta) è rara. Altre articolazioni che possono essere colpite sono: scapolo-omerale, metacarpo-falangea, coxo-femorale, sinfisi pubica, intervertebrali a qualsiasi livello.
Possono essere presenti sintomi sistemici, come brividi, febbre (forma pseudo settica). A differenza della gotta acuta che dura vari giorni, fino a una settimana, la CPPD acuta dura da settimane a mesi (ovviamente, si intende per entrambe, se non trattate).
Un fattore scatenante l’attacco di CPPD acuto può essere un trauma o una malattia acuta, come infarto miocardico, stroke, scompenso cardiaco acuto, un recente intervento chirurgico di qualsiasi tipo. Può trattarsi di un intervento di chirurgia generale, addominale, toracica. Oppure di un intervento ortopedico, ad esempio sul menisco, in artroscopia. Particolarmente a rischio è la paratiroidectomia, con esordio in seconda giornata, in coincidenza col punto più basso del crollo del calcio serico.
Una localizzazione rara e particolare è quella a livello della colonna cervicale, che provoca intenso dolore acuto al collo, febbre e aumento degli indici ematici infiammatori (Crowned Dens Syndrome) [2,3].
CPPD / Pseudo-osteoartrite
E’ la variante di CPPD più frequente (il 50% di tutti i casi) e al contempo piuttosto negletta, anche dalla comunità medica, in quanto la sintomatologia è meno eclatante e può essere facilmente confusa con l’osteoartrite primaria. Questa forma spesso colpisce le articolazioni: metacarpo-falangea, polso, gomito, spalla, più raramente interessate nella osteoartrite primaria. Una rara localizzazione è all’articolazione temporo-mandibolare. Sono poche decine i casi fino ad ora riportati in letteratura [4].
Tuttavia, il ginocchio è molto spesso colpito e possono essere interessate le articolazioni interfalangee prossimali e le articolazioni della colonna, come nell’osteoartrite. Dunque, la diagnosi differenziale non è scontata ma è importante perché la terapia delle due artropatie non coincide. Può aiutare a distinguerle la presenza nella CPPD di riacutizzazioni di flogosi e di danno articolare più grave.
CPPD Peudoreumatoide
E’ riscontrata nel 5% di tutti i casi di CPPD. Si caratterizza per un interessamento articolare flogistico, con edema, più simmetrico che nelle altre forme di CPPD ma meno che nell’artrite reumatoide [2,3,5].
Le articolazioni interessate sono le metacarpo-falangee e le interfalangee prossimali, ma anche altre piccole e grosse articolazioni non ne sono esenti. Le articolazioni sono interessate dalle riacutizzazioni in modo sequenziale.
CPPD Peudo-neuropatica
Si osserva in meno del 5% dei casi, colpisce più comunemente il ginocchio, è grave e distruttiva e non c’è evidenza di alcuna malattia neurologica sottostante.
CPPD dei tessuti molli
E’ rara ma può causare danno di tali tessuti e essere erroneamente scambiata per neoplasia.
CPPD asintomatica
Percentuale sconosciuta ma probabilmente non trascurabile.
Fattori di rischio e condizioni associate
CPPD “secondaria”
CPPD e osteoartrite possono associarsi e la prima può far peggiorare il danno articolare cartilagineo nel contesto della seconda. Tenendo conto che entrambe le malattie sono comuni nelle decadi avanzate della vita, la loro associazione può essere casuale.
Un pregresso, recente o remoto, trauma articolare costituisce un fattore di rischio per la CPPD. Anche una pregressa menischectomia, anche remota, ne aumenta il rischio (20%).
Operazioni chirurgiche recenti, in particolare la paratiroidectomia e gli interventi ortopedici per frattura del femore e per protesi d’anca predispongono ad attacchi di CPPD acuta.
Farmaci che possono scatenare o favorire un attacco di CPPD sono i diuretici dell’ansa, i fattori stimolanti le colonie di granulociti-macrofagi e il pamidronato.
Questione controversa è quella che riguarda la somministrazione intra-articolare, di solito nel ginocchio, di acido ialuronico, utilizzata come terapia per l’osteoartrosi e pure per la CPPD e altre malattie degenerative articolari, ma che secondo alcuni studi può indurre una CPPD acuta [6].
Condizioni metaboliche come fattore di rischio per CPPD
Si devono prendere sempre in considerazione ma in modo particolare nella CPPD in soggetti con meno di 60 anni.
Esse sono rappresentate da: ipofosfatasemia, iperparatiroidismo, ipomagnesiemia, ipotiroidismo (nel quale è particolarmente a rischio il primo periodo dopo l’inizio della terapia sostitutiva), emocromatosi [7].
Il magnesio corporeo è importante perché esso aumenta la solubilità dei cristalli di pirofosfato di calcio e agisce come cofattore della pirofosfatasi. La CPPD può coesistere con la gotta (5% dei pazienti con gotta hanno nelle articolazioni colpite, oltre ai cristalli di urato, anche cristalli di pirofosfato di calcio).
Esame obiettivo
E’ variabile, da quello di un’artrite acuta a quello di artrite cronica.
Nella CPPD acuta l’articolazione (o le articolazioni) colpita è dolorosa, dolente, edematosa, con cute calda e limitazione funzionale, indistinguibile dall’artrite gottosa.
La CPPD Pseudo-osteoartrite è indistinguibile dall’osteoartrite, salvo che per le sedi inusuali (v. sopra).
La forma di CPPD Pseudoreumatoide è molto simile all’artrite reumatoide, con sede tipica ai polsi e alle articolazioni metacarpo-falangee, ma è meno simmetrica.
Diagnosi di CPPD
La CPPD è sottodiagnosticata.
Laboratorio (generale)
Vi possono essere leucocitosi neutrofila, aumento della VES e della PCR.
Altri esami di laboratorio che sono consigliati, in particolare per escludere le forme secondarie e per la diagnosi differenziale, sono: uricemia, calcemia, fosfatemia, magnesiemia, fosfatasi alcalina, sideremia, transferrina, ferritina, indice di saturazione del ferro, TSH.
Ed ancora, per la diagnosi differenziale (v. avanti), possono essere indicati altri esami: fattore reumatoide, anti-CCP, ANA, PTH.
Esami di immagine
La radiologia convenzionale è un importante supporto alla diagnosi di CPPD. L’aspetto di condrocalcinosi però non è sufficiente e si devono ricercare altri segni, nell’articolazione più sintomatica e nelle altre solitamente più interessate dalla malattia.
Questi segni sono: osteofiti ad uncino (specie al secondo e terzo metacarpo); interessamento assiale, come la calcificazione dell’anello fibroso, gravi degenerazioni discali col fenomeno vacuum e erosioni subcondrali; il fenomeno vacuum della sacroiliaca, restringimento dello spazio articolare radiocarpale e patello-femorale-predominanti, cisti subcondrali; grave distruzione articolare, frammenti ossei, microfratture; calcificazioni tendinee o fasciali (tendine di Achille, fascia plantare, gastrocnemio, quadricipite, rotatore della cuffia, tricipite al gomito o alla spalla).
All’ecografia muscolo-scheletrica, il tipico aspetto della CPPD è di iperdensità lineari a livello della cartilagine articolare. E’ arduo però distinguere con l’ecografia la deposizione di cristalli di pirofosfato di calcio da quelli di urato [8].
La tomografia computerizzata individua bene le calcificazioni articolari della CPPD ed è particolarmente utile per lo studio della colonna.
La RM è una tecnica poco sensibile per le calcificazioni dei tessuti. Sappiamo invece che essa è oggi una metodica di immagine che tende a essere sempre più impiegata, anche come indagine di primo livello, benché sia la più costosa, per lo studio delle articolazioni.
Laboratorio (specifico per CPPD)
Il clou della diagnosi di CPPD è l’esame del liquido sinoviale al microscopio. Dopo un primo esame al microscopio ottico, esso deve essere condotto con il microscopio ottico a luce polarizzata compensata. Il reperto di CPPD è di cristalli (di pirofosfato di calcio) romboidali (o anche a parallelepipedo, cuboidi o ovoidali, raramente aghiformi) che appaiono blu quando sono paralleli all’asse del polarizzatore e gialli quando sono perpendicolari (per definizione, birifrangenza positiva) – Fig. a destra. Nella gotta invece i cristalli di urato sono aghiformi e appaiono gialli quando sono paralleli all’asse del polarizzatore e blu quando sono perpendicolari (birifrangenza negativa) – Fig. a sinistra.
Tale descrizione schematica, non è sempre agevole da mettere in pratica. E’ necessario uno specifico apprendimento da parte dell’operatore e ci sono situazioni in cui non è semplice pervenire a una diagnosi microscopica, per diversi motivi (liquido non fresco, cristalli troppo piccoli o poco concentrati, artefatti da lisi cellulare e da residui di cortisonico). Presso alcuni centri di reumatologia, vengono organizzati corsi specifici che consentono di apprendere in tempi molto brevi la metodica [9].
Essa rientra in ogni caso nella categoria degli esami di laboratorio con un grado di riproducibilità non soddisfacente. Questo aspetto deve essere ammesso.
Ovviamente, quanto sopra si applica in tutti i casi in cui vi sia quantità di liquido sufficiente, per le articolazioni suscettibili di artrocentesi e quando la stessa sia clinicamente indicata.
Ne consegue che se si accetta che per la diagnosi certa sia necessaria la dimostrazione dei cristalli di pirofosfato di calcio, in moltissimi casi la diagnosi non potrà essere che probabile o possibile, avvalendosi dei criteri, rispettivamente, di immagine e clinici [10].
Altri esami sul liquido sinoviale non devono essere trascurati, in base al contesto clinico, in particolare l’esame colturale quando ci sia il sospetto di artrite settica. Non si dimentichi che CPPD e artrite settica possono coesistere.
Diagnosi differenziale
Essa deve prendere in considerazione principalmente le seguenti patologie (tenendo conto che ci possono essere delle concomitanze e sovrapposizioni):
osteortrite, artrite settica, artrite reumatoide, iperparatiroidismo, ipotiroidismo, emocromatosi, malattia di Lyme, l’artrite traumatica, l’alcalosi metabolica ipokaliemica, ipocloremica, con ipomagnesiemia (Sindrome di Gitelman, nefropatia autosomica recessiva) e soprattutto la gotta (11).
Quasi tutte le forme di artrite acuta e cronica e di artropatie possono essere erroneamente diagnosticate quando invece la diagnosi corretta è CPPD.
Trattamento
Il trattamento della CPPD acuta è basato, per le articolazioni suscettibili di artrocentesi (in genere il ginocchio), sulla somministrazione di corticosteroide intra-articolare, come prima opzione.
Si può inoltre associare colchicina per os o usarla da sola qualora la terapia intra-articolare non sia fattibile. Per quanto la colchicina non sia né nefrotossica né epatotossica, è sconsigliabile in pazienti con grave compromissione epatica o renale e controindicata in pazienti con malattie infiammatorie intestinali. Essa agisce inibendo i microtubuli cellulari e di conseguenza inibisce la chemiotassi dei neutrofili e la fagocitosi. Inoltre inibisce le prostaglandine. Il suo principale fattore limitante è rappresentato dall’effetto collaterale, dose dipendente, diarrea, rapidamente reversibile alla sospensione del farmaco o alla riduzione del suo dosaggio. Data a bassi dosaggi quotidiani diminuisce la frequenza degli attacchi acuti. Sono consigliati periodici controlli della crasi ematica per una sua possibile azione depressiva sulla stessa.
I FANS sono un’ altra importante opzione terapeutica, con adeguata gastroprotezione.
Un corticosteroide orale, prednisone o prednisolone, a bassi dosaggi quotidiani (5 mg di prednisone) può essere un’altra valida opzione, specie nelle forme di CPPD reumatoide, in coloro che tollerano meno i FANS come gli anziani e nei pazienti con insufficienza renale, e quando la terapia intra-articolare non sia proponibile.
I FANS-inibitori-COX-2 possono essere altrettanto efficaci dei FANS tradizionali, con meno tossicità gastrica.
Altre opzioni terapeutiche da tenere presenti in caso di fallimento delle precedenti (o di controindicazioni o limitazioni al loro proseguimento), sono: idrossiclorochina, oppure metotrexate (specie nelle forme CPPD reumatoide).
Per le ragioni introdotte parlando della patogenesi della CPPD, legate al ruolo cruciale ricoperto dall’inflammasoma e dall’interleuchina-1 (IL-1), l’antagonista dei recettori dell’interleuchina-1 anakinra rappresenta una potenziale alternativa terapeutica in questa condizione [12].
Nel caso che un solo trattamento non sia sufficiente, si possono associare due o tre trattamenti diversi a basse dosi (ad esempio, colchicina, corticosteroide orale a basse dosi e/o, a intervalli di tempo il più possibile lunghi, corticosteroide intrarticolare).
Le forme di CPPD meramente secondarie ad altra patologia, ad esempio emocromatosi oppure ipotiroidismo, ipomagnesiemia, richiedono il trattamento della malattia di base.
Le forme asintomatiche (scoperte con un esame di immagine) non distruttive, non richiedono alcun trattamento, salvo che non siano secondarie ad altre malattie che richiedo trattamento specifico (v. sopra).
La sostituzione protesica articolare può divenire necessaria in casi avanzati e conferisce gli stessi risultati di quando viene effettuata per osteoartrite.
A differenza che per la gotta, non ci sono regimi dietetici da consigliare ai malati di CPPD e anche supplementi di magnesio, in assenza di ipomagnesiemia, non trovano consenso tra gli esperti [2,3].
L’introito medio quotidiano di magnesio è di 300 mg, le cui maggiori fonti sono i vegetali verdi, noci e nocciole, cereali, latte e prodotti ittici.
Conclusioni
Nel presente articolo è stata condotta una revisione clinica della CPPD.
Sembra un dato di fatto che la CPPD riceva ancora troppa poca attenzione da parte della comunità medica, specie se essa si paragona all’altra importante malattia da deposito di cristalli, cioè la gotta [3].
Ciò potrebbe stupire, se si pensa che le due malattie hanno una prevalenza che è dello stesso ordine di grandezza, anzi, forse quella della CPPD è maggiore. Tuttavia, rispetto alla gotta e a altre forme di artrite, la CPPD è sottodiagnosticata. I motivi di questa situazione sono probabilmente molteplici. La prima segnalazione di gotta risale a più di 2600 anni prima di Cristo presso gli Egizi e la malattia è stata gradualmente definita sempre meglio da centinaia di anni [13].
La definizione della CPPD risale a tempi assai più recenti. Nel lontano passato, prima dell’introduzione della determinazione dell’uricemia, molti casi di CPPD erano probabilmente diagnosticati come gotta [14].
La diagnosi di CPPD, come si è visto sopra, è ardua e la diagnosi differenziale può rappresentare una sfida per il clinico, situazione che non si verifica in ugual misura per la gotta.
Già nel 1985, Daniel Mc Carty, il maggior studioso moderno delle artriti da deposito di cristalli e lo scopritore della CPPD, lamentava, stupendosene, la scarsa attenzione della comunità medico-scientifica nei confronti delle sue fondamentali pubblicazioni, anche dopo molti anni da quando esse erano state date alle stampe. Egli notava inoltre che quasi tutti i riferimenti al liquido sinoviale nelle pubblicazioni comparse nei 23 anni successivi alle sue prime dettagliatissime descrizioni, erano di riscontro o di mancato riscontro dei cristalli, ma comunque con rari riferimenti alle tecniche impiegate. Si ha l’impressione che dopo ulteriori 30 anni, la situazione non abbia fatto molti progressi.
Molti casi di CPPD sono probabilmente diagnosticati come osteoartrite o come altre forme di artrite acuta, inclusa l’artrite reumatoide. Si pensi solo all’alta percentuale di soggetti positivi per il fattore reumatoide nelle decadi avanzate della vita e che non sono affetti da artrite reumatoide ma potrebbero esserlo da CPPD.
La diagnosi “definita” di CPPD è tuttavia importante, perché, benché ci sia per essa ancora scarsità di terapie efficaci e specifiche, la strategia di trattamento è diversa rispetto ad altre forme di artrite.
Infine, la CPPD è una malattia di interesse generale per il medico. Infatti, come si è visto, essa non è di sola pertinenza reumatologica, potendo coinvolgere molte altre specialità, una vera “malattia internistica”.
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SUMMARY
Calcium pyrophosphate deposition disease gives rise to a form of arthritis among the most frequent (up to 7% of the adult population), but at the same time underdiagnosed and under insufficient attention from the medical community. It is highlighted the diagnostic challenges, particularly the microscopic identification of pyrophosphate crystals in synovial fluid and the opportunities represented by the imaging, traditional and the most recent techniques, ultrasounds in particular. The different forms in which the disease can manifest, from acute to chronic, to the most rare and most difficult for the differential diagnosis, to the familial and the secondary to other diseases are also discussed. The issue of the management strategy for this disease (local, systemic-pharmacological, surgical, prosthetic, and their integration), for which there is a paucity of specific therapy is addressed.
TERMOMETRO DI VETRO A MERCURIO*, ORA SOSTITUITO DA TERMOMETRO DI VETRO A ALCOL ETILICO
*Il mercurio è pericoloso se finisce nell’ambiente nel caso che il termometro si rompa. Perciò è vietato. Qualcuno ne ha in casa uno vecchio e in genere lo conserva gelosamente.
Permette la misurazione della temperatura corporea attraverso l’espansione termica del mercurio o dell’alcol
Deve essere portato sotto i 35°C ogni volta prima dell’uso sbattendolo per far scendere il mercurio o l’alcol. Ciò talvolta può risultare scomodo.
Questi termometri devono essere tenuti correttamente in sede alcuni minuti, che variano a seconda del tipo di termometro (minimo 5, fino a 7). In pratica, nella mia esperienza, spesso vengono tolti dalla sede troppo presto, sottostimando la reale temperatura.
Permette la misurazione della temperatura corporea
Ascellare
Rettale
Orale
Inguinale
TERMOMETRO ELETTRONICO O DIGITALE
Contiene un resistore la cui resistenza varia col variare della temperatura (termistore)
Permette la misurazione della temperatura corporea
Ascellare
Rettale
Orale
Inguinale
Deve essere azzerato digitalmente. La batteria deve essere periodicamente cambiata.
Deve essere tenuto in sede da 60 a 120 secondi (circa, variabile) e il momento per toglierlo ed effettuare la lettura è segnalato da un allarme sonoro.
TERMOMETRO A RAGGI INFRAROSSI
Misura la radiazione termica infrarossa emessa dall’orecchio o dalla fronte e da questa misurazione inferisce la temperatura corporea.
Può essere utilizzato semplicemente avvicinando il termometro alla persona (3-5 cm), evitando il contatto.
Tempo di misurazione di pochi secondi o addirittura istantanea.
METODI DI MISURAZIONE, PRECAUZIONI E IMPRATICABILITA’
SEDE ORALE:
Persona con affanno di respiro
Continui starnuti, tosse, convulsioni
Persona confusa o non cosciente
Incapacità di chiudere bene la bocca
ORECCHIO:
Otite esterna
Ostruzione condotto uditivo esterno
Apparecchio acustico non rimovibile
RETTALE:
Accumulo di feci in sede ampolla rettale
Diarrea, emorroidi, ragadi, altre malattie rettali
Recente intervento chirurgico all’intestino
Ferite, lesioni anali
ASCELLA:
Incapacità di tenere bene il termometro dentro l’ascella (il bulbo del termometro al centro del cavo ascellare)
Sudorazione profusa (misurazione dopo asciugatura del sudore)
FRONTE:
Impossibilità per qualsiasi motivo di scoprire la fronte
Le temperature misurate nel cavo orale, nel retto e nel canale auricolare riflettono la temperatura interna del corpo e sono considerate più accurate delle temperature misurate nel cavo ascellare o sulla fronte (definite temperature superficiali, più soggette a variazioni per fattori esterni).
Se correttamente tarati e utilizzati tutti i tipi di termometro devono dare valori di temperatura che coincidono, nello stesso momento e nello stesso individuo (con scarti minimi accettabili).
Ci sono però differenze a seconda delle sedi in cui la temperatura è misurata.
Si parla di FEBBRE quando, a seconda della sede in cui è misurata, la temperatura è maggiore di:
FRONTE: il valore soglia dovrebbe essere inferiore a 37°, anche se in pratica si utilizza 37,5
Alcune importanti avvertenze:
Pazienti con malattie infettive devono usare un proprio termometro
Pulire il termometro seguendo le istruzioni del produttore
Evitare attività che possono distorcere la misurazione, come ad esempio bere acqua fredda appena prima di effettuare la misurazione; dopo sforzo fisico la temperatura può aumentare di qualche decimo di grado
Se la temperatura deve essere controllata regolarmente, misurarla alla stessa ora ciascun giorno e usare lo stesso metodo e tipo di termometro per permettere il confronto
Fonte: MEDICAL DEVICES GOV UK (liberamente tratto da)